Sono stato in silenzio per un po’, perché c’è una vita off line che bisogna riprendersi ogni tanto, nella propria anima e nel proprio pensiero. E anche perché la cosa che devo scrivere aveva bisogno di venire fuori nel modo giusto, senza rabbie o risentimenti.
Dunque: mercoledì entro in aula per la ripresa delle lezioni. Tra parentesi io odio riprendere le lezioni. Mi piace cominciarle, ma non riprenderle. Quindi detesto i corsi annuali, che hanno una lunga pausa a gennaio e febbraio, in cui noi e gli studenti ci perdiamo ognuno col suo viaggio ognuno diverso ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi… Ne consegue che entrare in aula mi pesa. Ma stavolta, le cose sono andate davvero al peggio del peggio. Primo perché il computer non era acceso, e il proiettore neanche. Il che rendeva inutile il mio lavoro di preparazione di materiali e di slides da mostrare. Avrei potuto naturalmente chiamare il bidello, farmi accendere tutto, ma avrei perso tempo e avevo un’ora sola a disposizione. Quindi ho pensato di andare a braccio, e che Dio mi aiuti. Ma forse era stanco forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore, e così sono rimbalzato sul totale, ma dico totale disinteresse degli studenti.
E’ difficile spiegare a chi non insegna cosa significa il disinteresse della platea. Più o meno succede così: ci sono due file attente. Non vorrei essere equivocato se dico che normalmente si tratta di studentesse. E’ così e basta. Il motivo per cui ciò accade è rinchiuso in una cassa di legno nel deposito della CIA accanto all’arca dell’alleanza. Poi ci sono le file di mezzo, scarsamente popolate. Infine ci sono le ultime file (possono essere una, due, ma anche dieci. Non è la conta matematica che le definisce, è la loro qualità). Le ultime file sono piene per definizione. E sono piene materialmente, senza scintille di umanità. Sono dense come una parete di cemento, ma mobili come le sabbie omonime, perché la gente va e viene, si gira avanti e indietro. Sono rumorose come la giungla, in cui i suoni sono potenziali pericoli e non riesci a non distrarti mentre cammini lungo il tuo discorso. E sono appunto organiche, ma non umane. Sono là, dietro una barriera che non sapresti definire, e che rifiuta per principio non le tue parole, ma qualunque parola possa venire dalla cattedra, o da più vicino (io non sto mai in cattedra, in nessun senso diretto o metaforico).
Dunque io ho speso moltissimo tempo a cercare di richiamare con ogni mezzo la loro attenzione: con le minacce, le battute, la faccia incazzata, tutto, insomma. Ma non ci sono riuscito perché non era possibile. Loro non erano là come studenti, ma come massa amorfa in cui avevano deciso di confluire con un ancestrale senso della conformità e della vicinanza vegetale o animale. E avevano deciso così perché non erano quegli studenti, ma studenti e basta. Non erano quelle persone, ma solo le ultime file. E, infine, io non ero il loro professore, nel senso della persona che insegna quei contenuti, che parla loro in quel modo piuttosto che in un altro, che ha uno stile, una personalità, un sapere. Ma solo un’occorrenza astratta della categoria dei professori, che si oppone alla categoria degli studenti, e che nella nostra ormai vergognosa università non può mai interagire con essa, ma deve solo erogare servizi (lezioni esami informazioni discorsi tecnici dissertazioni finali tesi argomenti libretti statini) senza rompere e restando al suo posto. Il che naturalmente vale anche al contrario: anche per i professori come categoria gli studenti possono essere una categoria che dispensa rotture e fatiche e distrae dai propri interessi, of course.
Ora, io detesto non esserci. Detesto il silenzio della vita. Devo aver avuto carenze affettive. Ma voglio essere io, non un’espressione astratta della categoria. E non sopporto di essere ridotto all’impotenza nel mio mestiere. E l’impotenza è non riuscire a trasmettere, non educare, non insegnare. Così non si può insegnare, davvero. Non so cosa inventerò alla prossima lezione. Ma un’altra lezione così, mai.
Non è un fatto personale. Questa è la mia politica. Questa è la mia vita. Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.
Buon vento
Mi viene in mente una celebre telenovela brasiliana degli anni 80: “Anche i baroni hanno un’anima” 😉
Da blogger a blogger: “normalmente si tratta di studentesse. E’ così e basta. Il motivo per cui ciò accade è rinchiuso in una cassa di legno nel deposito della CIA accanto all’arca dell’alleanza”. Huh, scrivi come un blogger navigato: hai un futuro su Twitter 😉 E inoltre hai ritratto una delle più incredibili verità dell’insegnamento. Dobbiamo indagare. Sentiamo Dan Brown?
Studenti vs. Professori. Voglio essere tranchant. E accuso la creazione delle lauree triennali: un poderoso stimolo alla “licealizzazione” dell’esperienza universitaria. Che per gli studenti, in modo naturale, si traduce in una minore importanza data al “lavoro” dello studio. L’università è una scelta semi-individuale: è come scegliersi da sè un lavoro, una posizione, un percorso, un (pezzo di) destino. Se qualcuno non lo capisce, bisognerà urlarglielo finché non gli entra in testa? 😉
By: matteos on 21, febbraio, 2010
at 2:45 PM
Bella questa conversazione tra blogger.
Il commento di Matteo mi provoca particolarmente perchè è da qualche tempo che sento accusare il 3+2 di tutti i mali del nostro tempo.
Ad essere sincero, la cosa mi lascia molto perplesso. Mi sembra il solito gioco tra il dito e la luna. Il 3+2 non ha obbligato ad una licealizzazione.
Tre anni (teorici) possono essere intensi e “universitari” tanto quanto il buon vecchio ordinamento. Il fatto, quello vero, è che il 3+2 si è accompagnato all’aumento dell’autonomia dei singoli atenei che hanno pensato bene di correre dietro all’idea che avevano degli studenti (fraintendendo enormemente, tra le atre cose, l’essenza stessa del “prodotto formazione/cultura”). E così via alla polverizzazione dei corsi, ai curricula creativi, ai CdL “Very cool”, ad una generale – diciamolo! – semplificazione del tutto. Tutto questo con la connivenza – stupida- degli studenti e quella – colpevole – dei genitori. Questo è il risultato, ma la colpa – il principio – non è la laurea triennale è la laurea triennale che il nostro sistema universitario ha partorito. Ma tutto questo nei decreti e nei regolamenti di riforma non c’era.
By: Luca on 21, febbraio, 2010
at 4:21 PM
Interessante, dico io (che in Cattolica sono all’inizio quando altri sono alla ripresa). Apprezzo il desiderio di dire qualcosa (educare è sempre un termine fuori luogo credo), che non è poi così comune tra i docenti come si pensa (perché i professori pensano all’influenza sul mondo, al parere dei colleghi sui propri scritti ecc.). Poi ogni tanto il mulino macina a vuoto, se il grano non arriva, ma forse è inevitabile.
By: Claudio on 21, febbraio, 2010
at 7:03 PM
Non so se le può essere di conforto o di aiuto ma glielo dico lo stesso: un clima di lezione come quello descritto sopra è sconfortante anche per gli studenti. Anche se io in prima fila credo di non essermici mai seduta. Una quarta fila politica, diciamo.
Ma c’è sempre qualcuno che si accorge del professore che s’incazza, non perchè percepisce un fallimento del proprio potere di docente, ma perchè “non arriva e si sente impotente.”
Non è vero, prof. C’è sempre qualcuno che ascolta.
E intanto cerco il numero di uno psicanalista, perchè ho parlato tragicamente al presente mentre festeggio un anno netto dalla mia laurea.
Sigh… nostalgia canaglia.
V.
By: Esse on 21, febbraio, 2010
at 7:31 PM
Uno racconto che è uno spaccato efficace della realtà Universitaria dal di dentro. E un rovesciamento di prospettiva rispetto alla dimensione di “pura amministrazione” a cui la riforma ha portato. Sui due lati (docenti e studenti) sono spesso le vocazioni e le motivazioni ad essere cambiate.
Ma noi mica ci arrendiamo, no?
By: gboccia on 22, febbraio, 2010
at 2:24 PM
Esse ha ragione. C’è sempre qualcuno che ascolta.
A lezione settimana scorsa ho spento microfono e computer 20 minuti prima della fine, senza dire una parola.
Si sono levati alcuni “Ma nooo, Prof.!!”, “Non se la prenda..”. In una decina si sono avvicinati alla cattedra e con sorrisi imbarazzati mi hanno riempita di domande sul contenuto della lezione, prima timidamente e poi con sempre maggior passione. Sono rimasta lì con loro a lungo, ed è stato bello.
Alla lezione successiva non volava una mosca. Ma so già che non durerà.
Per cui terrò a portata di mano il tuo post – uno dei tuoi migliori, se mi posso permettere – e, al prossimo rumoreggiare subumano della classe, lo leggerò ad alta voce, spacciandolo (perdonami ☺) per la pagina di un famoso romanziere americano o chessò io.
Ti farò sapere se funziona. (E se facessi lo stesso anche tu?)
By: daniela on 22, febbraio, 2010
at 9:47 PM
Caro prof, come Esse io militavo fra l’esercito delle file di mezzo ma le mie preferite erano le ultime. Le assicuro che laggiù in fondo le parole arrivano, arrivavano eccome, e adesso a dieci anni di distanza alcune sue lezioni le ho ancora decisamente ben impresse. Anche con la gente che va e viene. Anzi, le lancio una provocazione, ma le prime file, sempre attente, ad ogni ora, ad ogni lezione sempre a fare domande su domande non nasconderanno forse una attenzione “interessata” (al voto.. al superamento dell’esame) priva di qualsiasi passione per la materia?
Al di là di questo, la ringrazio tutto ciò che mi ha insegnato
By: LP on 22, febbraio, 2010
at 10:29 PM
Amici miei (per una volta, lasciatemelo dire), grazie del conforto, dei pareri, dei suggerimenti. Qualche nota sparsa. Non amo particolarmente le prime file. Diciamo che sono parzialmente sospettoso dell’attenzione troppo manifesta (neanche le demonizzo, però, sia chiaro). Amo quelle di mezzo. E anche le ultime. Per questo mi fanno così incazzare quando non ci sono con la testa. E non mi arrendo, lo sapete. Magari farò come dice Daniela, e leggerò il mio post, e i vostri commenti, visto che dubito che lo facciano da soli (non per cattiveria, insipienza o quant’altro, solo perché sono così, che Dio li benedica). Quello che voglio dire è che ho preso coscienza che c’è un problema, e che dobbiamo affrontarlo daccapo. Che dobbiamo trovare il senso del nostro stare nella stessa aula per un tot di ore alla settimana. Solo questo. Io penso che il senso ci sia, ma che da qualche parte lo abbiamo smarrito. Cerchiamo insieme. Non molliamo, please.
By: faustocolombo on 22, febbraio, 2010
at 11:23 PM
Il taglio di questa nota è molto bello. Soprattutto perchè Fausto deve averci pensato abbastanza per decidersi di trasferire così il suo “vissuto”, un tocco alla Truffaut. Alberto Abruzzese me lo segnala e quindi vuol dire che c’è condivisione attorno a questo allarme pacato. Io rispetto molto questi punti di vista. Ma – “oggi”, inteso come un’isola congiunturale – sto sperimentando un contesto quasi opposto. Ho alzato il livello critico delle mie lezioni, cioè ho introdotto un po’ (lo dico sempre nel rispetto di una certa neutralità della didattica) di “indignazione” civile nell’argomentazione e nei riferimenti ai contesti. Pongo al centro il problema del percorso di questi tre maledetti e pochissimi tre anni che non possono non avere sbocco (a Scienze della Comunicazione) in una percezione critica e non solo tecnica della materia. Questo approccio obbliga a misurare molto le parole. Ma anche a cercarne alcune in profondo. E’ vero che restano le ultime file in mormorio ma l’area di attenzione (vero che è femminile quella della prime) si è molto ampliata rispetto agli anni scorso e – oso dire – anche la tenuta dell’aula nel progredire del tempo. Chiedo scusa, di questa “vanteria”. Non credo sia problema di persone. Fausto Colombo è tradizionalmente molto apprezzato dagli studenti. Volevo solo segnalare che ho trovato – proprio quest’anno – un po’ più di ciò che chiede lui, soglia di responsabilità, persino al primo anno.
By: stefano rolando on 25, febbraio, 2010
at 4:47 PM