E’ strano come ogni tanto i viaggi assomiglino a dei ritorni. Sono stato a Parigi per un giro di conferenze e la partenza è stata difficile. Avevo la testa piena di pensieri, lo zaino di libri, il cuore di agitazione. Da un po’ di tempo va così, nella mia vita: le idee mi si agitano nella testa apparentemente senza ordine: le cose da scrivere, le relazioni da preparare, la continua sensazione di non essere pronto, non trovarmi alla giusta altezza rispetto alle aspettative (degli altri, di me stesso?) producono una sorta di panico sottile che mi attanaglia e mi fa persino camminare più piano.
E’ così che sono partito per Parigi, una città dove sono stato diverse volte, in differenti stagioni della mia vita, e che di solito mi fa sentire a casa. Ho speso il week end a girare la città, accettare l’invito a cena del mio delizioso collega Yves e della sua ospitale signora, riscoprire le strade e le piazze, riappropriarmi del metro. Poi è cominciato il viaggio vero e proprio: sono stati degli incontri, uno più sorprendente dell’altro, a ridarmi il senso del nostos, di questo malinconico ritorno dove ci si ritrova e ci si riscopre.
Il primo è stato con il mio Paese. Così da lontano, ho seguito le vicende elettorali e mi sono sentito, improvvisamente, non più straniero. Qualcosa succedeva, a casa, che mi diceva non sei un estraneo, un profugo, un esule, un non so. Sei un cittadino circondato da tanta gente che ha le tue stesse paure, e che le esorcizza ancora usando la democrazia, il proprio buon senso e la propria volontà. E allora è stato come essere a casa così lontano, in una stanza d’albergo, senza nemmeno la necessità di tornare per sentirmi di nuovo italiano. Per festeggiare, lunedì sera, ho fatto una cosa che non faccio mai: sono sceso alla pizzeria italiana all’angolo di rue Linné, nel Quartier Latin, e mi sono divorato una margherita, bevendo una Peroni. Una rentrée, potrei dire.
Il secondo è stato con un vecchio amico, che si chiama Hugo Pratt. La pinacothèque gli dedicava una mostra sugli acquarelli del suo ultimo decennio di vita. Sono straordinari. E straordinario era Pratt, su cui – guarda la combinazione – devo appunto scrivere un capitolo del mio nuovo libro. C’è in particolare un acquarello che mi ha colpito. Corto è disteso su un grande prato. E’ di profilo, ha la testa lievemente sollevata. La sua lunga silhouette occupa la parte centrale del quadro, e suggerisce una grande calma sospesa. L’ho guardata a lungo, quell’immagine, e ho capito: ho capito perché ho sempre amato il Maltese, i paesaggi di Pratt, le sue storie dove l’eroismo è solo la fedeltà al proprio incerto destino.
Il terzo ritorno sono stati i miei colleghi del Celsa, con cui ho discusso, dibattuto, condiviso esperienze di ricerca e di insegnamento, in un mix con le visite al Louvre, all’Orangerie, a Beaubourg e una magnifica mostra su Manet. Mi sono ricordato di cosa vuol dire condividere un’esperienza intellettuale, ascoltare ed essere ascoltato, sentirsi parte di una comunità. Mi sono ricordato – e Dio sa se ne avevo bisogno – cosa significa fare il nostro mestiere.
Nel nigrare dei giorni, l’agitazione se ne è andata piano piano. La fiducia è tornata. Le idee hanno preso a sedimentarsi strato per strato nel cervello. E poi sono andato all’aeroporto e in libreria ho visto campeggiare l’ultimo romanzo di Fred Vargas, L’armée furieuse. Allora mi sono fatto un regalo. L’ho comprato e ne ho divorato le prime settanta pagine prima di crollare sul sedile dell’aereo. Ho sognato il commissario Adamsberg che spalando le sue nuvole mi sorrideva, e sono sicuro di aver ricambiato il sorriso, nel sonno.
Buon vento.
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