Pubblicato da: faustocolombo | 19, Maggio, 2011

Ritorno a Parigi

E’ strano come ogni tanto i viaggi assomiglino a dei ritorni. Sono stato a Parigi per un giro di conferenze e la partenza è stata difficile. Avevo la testa piena di pensieri, lo zaino di libri, il cuore di agitazione. Da un po’ di tempo va così, nella mia vita: le idee mi si agitano nella testa apparentemente senza ordine: le cose da scrivere, le relazioni da preparare, la continua sensazione di non essere pronto, non trovarmi alla giusta altezza rispetto alle aspettative (degli altri, di me stesso?) producono una sorta di panico sottile che mi attanaglia e mi fa persino camminare più piano.

E’ così che sono partito per Parigi, una città dove sono stato diverse volte, in differenti stagioni della mia vita, e che di solito mi fa sentire a casa. Ho speso il week end a girare la città, accettare l’invito a cena del mio delizioso collega Yves e della sua ospitale signora, riscoprire le strade e le piazze, riappropriarmi del metro. Poi è cominciato il viaggio vero e proprio: sono stati degli incontri, uno più sorprendente dell’altro, a ridarmi il senso del nostos, di questo malinconico ritorno dove ci si ritrova e ci si riscopre.

Il primo è stato con il mio Paese. Così da lontano, ho seguito le vicende elettorali e mi sono sentito, improvvisamente, non più straniero. Qualcosa succedeva, a casa, che mi diceva non sei un estraneo, un profugo, un esule, un non so. Sei un cittadino circondato da tanta gente che ha le tue stesse paure, e che le esorcizza ancora usando la democrazia, il proprio buon senso e la propria volontà. E allora è stato come essere a casa così lontano, in una stanza d’albergo, senza nemmeno la necessità di tornare per sentirmi di nuovo italiano. Per festeggiare, lunedì sera, ho fatto una cosa che non faccio mai: sono sceso alla pizzeria italiana all’angolo di rue Linné, nel Quartier Latin, e mi sono divorato una margherita, bevendo una Peroni. Una rentrée, potrei dire.

Il secondo è stato con un vecchio amico, che si chiama Hugo Pratt. La pinacothèque gli dedicava una mostra sugli acquarelli del suo ultimo decennio di vita. Sono straordinari. E straordinario era Pratt, su cui – guarda la combinazione – devo appunto scrivere un capitolo del mio nuovo libro. C’è in particolare un acquarello che mi ha colpito. Corto è disteso su un grande prato. E’ di profilo, ha la testa lievemente sollevata. La sua lunga silhouette occupa la parte centrale del quadro, e suggerisce una grande calma sospesa. L’ho guardata a lungo, quell’immagine, e ho capito: ho capito perché ho sempre amato il Maltese, i paesaggi di Pratt, le sue storie dove l’eroismo è solo la fedeltà al proprio incerto destino.

Il terzo ritorno sono stati i miei colleghi del Celsa, con cui ho discusso, dibattuto, condiviso esperienze di ricerca e di insegnamento, in un mix con le visite al Louvre, all’Orangerie, a Beaubourg e una magnifica mostra su Manet. Mi sono ricordato di cosa vuol dire condividere un’esperienza intellettuale, ascoltare ed essere ascoltato, sentirsi parte di una comunità. Mi sono ricordato – e Dio sa se ne avevo bisogno – cosa significa fare il nostro mestiere.

Nel nigrare dei giorni, l’agitazione se ne è andata piano piano. La fiducia è tornata. Le idee hanno preso a sedimentarsi strato per strato nel cervello. E poi sono andato all’aeroporto e in libreria  ho visto campeggiare l’ultimo romanzo di Fred Vargas, L’armée furieuse. Allora mi sono fatto un regalo. L’ho comprato e ne ho divorato le prime settanta pagine prima di crollare sul sedile dell’aereo. Ho sognato il commissario Adamsberg che spalando le sue nuvole mi sorrideva, e sono sicuro di aver ricambiato il sorriso, nel sonno.

Buon vento.

Pubblicato da: faustocolombo | 12, Maggio, 2011

La barbarie moderata

Ieri, su Sky, è andato in onda qualcosa di terribile, cui giustamente l’informazione ha dedicato e dedica molto spazio. Nel confronto organizzato dal TG di Skay, e moderato da Carelli, i candidati sindaci di Milano, Letizia Moratti (sindaco uscente) e Giuliano Pisapia si sono confrontati dentro a un rigido schema (diremmo di tipo anglosassone) che assegnava la parola per turni di due minuti a entrambi, alternativamente. Negli ultimi secondi del suo ultimo turno di parola, Letizia Moratti ha ricordato una vicenda giudiziaria di trent’anni fa, che aveva visto protagonista il suo rivale. Nelle parole di Moratti la vicenda si era chiusa con la condanna, poi amnistiata. Non vi era più possibilità di replica. Pisapia ha potuto soltanto compiere un gesto simbolico, non dando la mano alla sua avversaria, come Carelli chiedeva.

L’accusa della Moratti a Pisapia è falsa. Vari giornali, fra cui il Corriere di oggi, ricostruiscono quella vicenda giudiziaria con dovizia di particolari. Pisapia fu accusato, si fece anche qualche mese di carcere, ma fu poi assolto per non aver commesso il fatto da entrambe le accuse che lo riguardavano. Su questa faccenda vorrei spendere qualche breve considerazione, puramente pletorica visto la quasi unanimità dei commenti giornalistici alla vicenda.

Primo punto: il metodo usato da Moratti è evidentemente studiato a tavolino. Si usa l’ultimo turno di parola per lanciare l’ultima carta che si ritiene vincente, annichilendo la possibilità dell’avversario di rispondere e parare il colpo. Usò un metodo simile Sivlio Berlusconi nel secondo faccia a faccia con Prodi nel 2006. Aspettò l’ultimo turno di parola e poi disse guardando ben saldo in macchina e puntando il dito verso lo schermo e gli spettatori: “Aboliremo l’ICI”. Trucco dunque vecchio, in uso presso la destra, ma legittimo finché gli argomenti sono legittimi (e l’abolizione dell’ICI evidentemente lo era, visto che fu poi adottata anche dalla vincente coalizione di sinistra). Tuttavia, questo ci dice qualcosa sui faccia a faccia moderati all’anglosassone, di cui il Tg di Sky ha fatto una propria bandiera (ho partecipato in Cattolica, l’anno scorso, a un dibattito sul tema, cui aveva preso parte anche il mio collega Aldo Grasso): sono certo meglio di niente, ma non bisogna illudersi che le regole rigide siano davvero una garanzia, perché una volta che le regole sono note ci sono ampi margini di sfruttamento delle pieghe delle regole. Cioè, detto in altri termini: la garanzia vera della correttezza di un dibattito è la correttezza morale della discussione. Le regole non la possono creare, ma solo favorire.

Secondo punto: la menzogna. Lasciamo stare qui se si tratta di vera e propria falsità o di grave omissione (il che, nel caso specifico, mi sembra irrilevante: scriveva Grice nel commentare la sua massima della quantità che non saremmo contenti dell’onestà di nostro figlio nell’ammettere di aver rotto un bicchiere del servizio buono se poi scoprissimo che ha rotto anche tutto il resto): ciò che conta è che la menzogna c’è, è facilmente dimostrabile, e quindi essa viene pronunciata sperando di lucrare sull’effetto immediato, a dispetto del vero. C’è qualcosa di osceno in tutto questo, e l’idea stessa che ci si possa pensare dà la misura dell’imbarbarimento della lotta politica nel nostro Paese.

Terzo, la moderazione. La Moratti aveva ripetuto ossessivamente di essere una persona moderata, di venire da una famiglia moderata, di avere speso una vita moderata, di avere idee moderate. Siamo legittimati a pensare che anche quel bel gesto finale sia moderato? Se sì, meglio essere estremisti, e mi rallegro di rientrare certamente in questa seconda categoria. Eppure sarebbero i moderati a doversi indignare, a dire non vogliamo che il nostro senso della misura e del giusto mezzo (che pure esiste e talvolta aiuta un Paese) sia infangato attraverso lo scambio con qualcos’altrio, che meriterebbe un’altra parola: mediocrità. Mediocrità civile, morale, politica. Che cosa c’è di più mediocre di fare la faccia offesa se si parla di una moschea e poi barare al gioco? Ecco, quando la moderazione è un’istanza etica è un valore; quando è la semplice copertura della mediocrità può trascendere in barbarie.

Non voto a Milano, e non posso farci niente. Ma credo che da queste righe si evinca benissimo come spero che finisca. Buon vento, allora.

Pubblicato da: faustocolombo | 9, Maggio, 2011

Habemus Papam!

Non sono un critico cinematografico (anzi, non sono un critico di nessun genere), e quindi è con qualche timore che spendo parole su un film. Ma ho visto finalmente – nel mio cinemino di paese, in mezzo a una decina di persone, in ‘un’atmosfera anni Sessanta che mi piace rivivere di tanto in tanto – l’ultimo film di Moretti, e vorrei spenderci qualche parola.

La storia è nota. Un cardinale viene eletto Papa nel Conclave. Accetta con timore, ma viene preso dal panico. La proclamazione resta a mezzo. La gente in Piazza San Pietro, i giornalisti, il mondo intero sono in attesa trepidante di capire cosa succede. Il Papa fugge, approfittando di una visita a una psicanalista. Gira per Roma, incontra degli attori. I cardinali e un altro psicanalista (marito della precedente, interpretato da Nanni Moretti, mentre Piccoli è il nuovo Papa) sono bloccati in Vaticano. Parlano, giocano a briscola e a pallavolo, si illudono che il Pontefice sia ancora nelle sue stanze, a causa dell’inganno di un addetto stampa, che copre la fuga.

Poi il fuggitivo rientra, si presenta finalmente alla Piazza e ai fedeli. Annuncia di non poter continuare. Lui non è l’uomo adatto alla Chiesa di oggi e alle sue sfide. Ha bisogno di essere guidato. Non sa guidare. Il film finisce così, su questo “gran rifiuto” che sorprende e getta nella disperazione il popolo di Dio.

Non so se l’ultimo lavoro di Nanni Moretti è un film sulla fede. Non credo. Il punto di partenza è un classico “che cosa succederebbe se”, in parte assurdo, in parte plausibile, per chi ricorda Celestino V, salvo che qui la “viltade” è un umanissimo dubbio, forse una malattia dell’anima, magari una più generale condizione di impotenza. Lo sviluppo della trama è semplice: il Papa, che si immagina chiuso in Vaticano, gira per Roma. Gli altri, che abitualmente stanno fuori, vi sono invece bloccati dentro, come ne L’angelo sterminatore di Bunuel. Una condizione assurda, ho detto, o meglio una condizione dell’assurdo, genere nobile cui forse andrebbe iscritto il film.

Ricordo un altro film – mi pare si intitolasse L’uomo del Cremlino – in cui un Papa usciva e girava per Roma, trovando nella gente comune la forza che dentro di sé non aveva trovato. Ma qui non c’è nessuna forza da trovare, perché la condizione di dubbio è senza sbocco, né umano né divino. E’ una condizione narrativa, che non evolve, ma si sviluppa fino alle estreme conseguenze.

Dunque il Papa di Piccoli rappresenta chiunque si senta impotente, chiunque viva la condizione esistenziale di “non saper guidare” ma di voler essere guidato. Una condizione che sperimentiamo tutti, e che nel film di Moretti tocca al Vicario di Cristo sulla terra. Perché mi sono riconosciuto in quel personaggio, davvero così umano, con i suoi occhi smarriti, il suo sorriso dolce, la difficoltà a spiegare se stesso? Forse perché vi ho letto il dono che Dio concede a tutti, credenti o no, e che mi è stato spiegato molti anni fa da un amico molto saggio.

Eravamo a un tavolino di un bar, e lui mi ha chiesto se sentivo mai la presenza di Dio. Gli ho risposto cosa intendeva. Mi ha detto che ci sono tre modi di sentirla: per qualcuno è la spada della convinzione, per altri il libro della verità. Ma nessuno dei due è davvero un dono divino, piuttosto una proiezione umana.

La terza, gli ho chiesto? La terza è il dono vero, mi ha risposto: una modica quantità di dolore.

Buon vento.

Pubblicato da: faustocolombo | 3, Maggio, 2011

Bin Laden non è mai esistito

Niente paura: il titolo è una citazione di Baudrillard, che prima durante e dopo la Guerra del Golfo scrisse una serie di articoli sul tema Perché la Guerra del Golfo non sta avvenendo. Erano articoli provocatori, ma anche molto intelligenti sul fatto che ciò che vedevamo non necessariamente significava l’esistenza in vita della guerra, perché la grande macchina del simulacro poteva benissimo simulare tutto, senza bisogno di morti e distruzioni reali. Purtroppo i morti e le distruzioni reali c’erano davvero, ma la questione posta dal vecchio Baudrillard rimane in qualche modo di attualità.

A cosa abbiamo assistito ieri? Un annuncio: Bin Laden, la mente della strage dell’11 settembre, è stato ucciso. Il suo cadavere sepolto in mare. La sua identità provata dall’esame del DNA. A New York la gente festeggia, con le stesse immagini in realtà vagamente spaventose che mostravano alcune vere o presunte popolazioni antiamericane esultare dopo la caduta delle due torri. Foto dei pompieri, gli eroi del nine eleven, con il pollice alzato in segno di esultanza.

Nel frattempo (sono passati dieci anni) la storia è cambiata. Il regime talebano è caduto, anche se il nuovo Afghanistan non si sente tanto bene. Cose analoghe sono successe in Iraq. Nuove potenze sono sulla scena mondiale. Il mondo arabo sta mutando rapidamente. Abbiamo una crisi economica spaventosa, che mette a dura prova i mercati e la produzione di quasi tutto il mondo.

Ma in qualche modo la narrazione americana ci dice che una parabola si è compiuta. L’azione terribile dell’11 settembre ha trovato la sua vendetta. La lunga mano americana (il bene) ha colpito la mano di chi l’aveva percossa (il male). Nel frattempo, sempre per dire, Al Qaeda è cambiata molto dal 2001. E’ sempre più una galassia di elementi parzialmente autonomi, a volte imitatori. Gli stessi osservatori internazionali ci ricordano che sono possibili ritorsioni, nuove azioni dimostrative da parte di schegge impazzite del terrorismo internazionale.

Perché allora, qualcosa è finito? Perché l’uccisione di Bin Laden avviene con la stessa forza simbolica della caduta delle due torri. Stesso senso di déjà vu filmico o letterario (alla Tom Clancy, per intenderci); identica simbolizzazione strategica: si sceglie di fare attaccare la villa-fortezza anziché raderla al suolo perché l’uccisione diretta, il corpo disponibile al prelievo del DNA, la possibilità stessa di una foto (sfruttata e bruciata in anticipo da un falso ritoccato, per la felicità postuma di Baudrillard) costruiscono l’evento come simbolico, narrabile, e insieme parte di una narrazione più ampia, con un netto inizio (le due torri) e una netta fine (la vendetta su Bin Laden).

Questa narrazione simbolica è piena degli elementi del simbolico contemporaneo: non solo i Navy Seals, eroi di tanto cinema e fiction avventurosa, ma anche la cronaca su Twitter, la circolazione sui social media, i commenti planetari. E’ anche di più: è una breve storia che si costruisce come una parabola perfetta del bene che vince sul male, con un happy end di tipo hollywoodiano.

Fuori, naturalmente, il mondo è più complicato, ma tant’è. E questo evento simbolico svela anche un sottile filo di barbarie nei festeggiamenti più o meno smodati per qualcosa che è pur sempre un’uccisione. Un filo di barbarie che ci lega tutti, terroristi e uomini d’ordine, pacifisti e guerrafondai, perché quando si apre il vaso di Pandora della violenza allora diventa il tempo dei barbari, indipendentemente dalla foggia dei vestiti e dalla sofisticazione delle armi o dei mezzi di comunicazione.

Un capo terrorista è morto. Le vittime dell’11 settembre non risorgono. Il presidente che ha scatenato la guerra in una bella fetta del mondo conosciuto non c’è più, e il suo successore sarà probabilmente rieletto per questo successo. La vita degli uomini è strana, a volte. La loro morte non meno.

Buon vento.

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