Mentre rileggo il saggio di Simmel sulla socievolezza, con la pregevole introduzione di Gabriella Turnaturi, elaboro le mie lezioni su media e politica, in cui sto trattando il tema del potere. Così l’effetto che mi fa la lettura di Simmel è di una sorta di strabismo. Leggo le sue righe e penso ad altro.
Mi spiego per chi non conosce l’argomento. Simmel distingue tra sociazione e socievolezza. La prima è quella forma seria del vivere sociale che codifica e istituzionalizza le spontanee relazioni fra le persone, materializzandosi in ciò che chiamiamo società. La seconda è la dimensione giocosa dello stesso vivere, quella che restituisce il piacere del gioco fra le persone, del disinteresse rispetto all’utile immediato. Il modello è la conversazione fra amici, in cui il singolo davanti al gruppo – dice Simmel – si libera e perde le restrizioni che il rapporto uno-a-uno magari gli fa sentire.
Penso al salotto, quella forma di conversazione intellettuale che tanto ha dato a ogni tipo di cultura. Il salotto borghese occidentale o il diverso conversare orientale in cui le geishe sapevano mettere a frutto la propria cultura e la pripria intelligenza. Ed è un ottimo luogo per raccontare la socievolezza di Simmel. E’ anche – in fondo – una buona metafora dei social networks, visto che su facebook ci comportiamo apparentemente proprio come dice Simmel, perdendo quei vincoli che magari nel face-to-face ci possono attanagliare.
Tuttavia qui la mia memoria corre alla ricerca del tempo perduto di Proust e ai salotti raccontati lì, in cui – per esempio in quello cattivissimo di Madame Verdurin – un insieme di regole non scritte intrappolano il malcapitato Swann, preso dall’amore per una cocotte di facilissimi costumi. Ecco, in quei salotti non si libera affatto il gioco spontaneo, ma anzi, tutto si costruisce come una vincolante rappresentazione in cui le facce pubbliche (per usare Goffman), sapientemente costruite nei backstages, recitano la loro parte con una finalità di primato, o quantomeno di salvezza. In fondo, anche qui, un gioco di potere.
Non funziona anche questa metafora, per il salotto di facebook, in cui tutti mettiamo in scena una faccia pubblica che ci piace mostrare, e liberiamo sì le nostre risorse, ma non giocando a volte nel senso simmeliano quanto piuttosto nel più ambiguo significato del termine play (anche recitare, appunto)? E non è forse tutto questo un ottimo suggerimento dell’ambiguità della nostra azione comunicativa nei sn, in cui di nuovo regole in fondo non scritte da noi, ma dal sistema, dall’interfaccia, dall’ingegnere sociale delle relazioni che li ha inventati ci costringono a volte a giocare una partita non davvero spontanea, ma destinata a vincere o perdere qualcosa, una posta che in fondo non conosciamo neppure?
Buon vento.
Sulle regole non scritte da noi:
La prima cosa che mi viene in mente è che il sitema di Fb permette di entrare ma non fattivamente di uscire ( non so se ad oggi è cambiato qualcosa ma fino a qualche mese fa, cancellando il profilo ogni informazione rimaneva registrata e bastava un click per riaccedere al proprio account esattamente come era)
Come entrare in un salotto, chiaccheri con i tuoi amici.. ti diverti, ci stai bene.. ma al momento di andare a casa qualcuno si avvicina e ti sussurra… tranquillo noi abbiamo registrato tutto e mentre non ci sarai continueremo a registrare tutto .. quando tornerai, sarà tutto come prima…
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By: LP on 16, novembre, 2010
at 12:35 PM
ciao fausto,
ho trovato un saggio molto interessante su facebook. è stato pubblicato su “carmilla” e comincia così:
“Facebook – quattordici milioni di utenti italiani – è un dispositivo social (siamo tutti “amici”) e sicuramente di successo (ma come, non sei su Facebook?), ma è anche un dispositivo persuasivo , nel senso che induce comportamenti automatici e prevedibili (ci vuole, appunto, tutti veri e social ) e al tempo stesso omologante, nel senso che induce, in noi utenti, assetti identitari, modalità di interazione e di narrazione, regimi di visibilità che ci rendono seriali e simili. Su Facebook si è più soggetti costituiti, che soggetti costituenti. Facebook accentua caratteristiche già presenti in altri luoghi della rete, rivelandosi così un esempio significativo di dispositivo-specchio, cioè di dispositivo che crea effetti di somiglianza con il “reale” e impone specifici assetti identitari.”
il resto è possibile leggerlo qui:
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/11/003675.html#003675
a presto
giuseppe
By: giuseppe zucco on 16, novembre, 2010
at 1:06 PM
Il paragone tra i SN ed il “gioco sociale” dei salotti borghesi lo trovo sorprendete e azzeccatissimo, bisognava davvero pensarci, grande intuizione! La cultura non e’ acqua 🙂
In particolare il riferimento al salotto Verdurin della Recherche e’ veramente pertinente.
La catena di associazioni mi ha fatto venire in mente anche De Laclos, Les liaisons dangereuses, un titolo anche per il mondo dei SN?
By: albert on 16, novembre, 2010
at 10:23 PM
Grazie a tutti quanti, e a quelli che vorranno intervenire ancora. @giuseppe. Segnalo che la tua citazione da carmilla coincide a un saggio pubblicato da Aut Aut, nell’ultimo prezioso monografico sulla rete, già peraltro segnalato da Albert (la referenza su carmilla è corretta). Lo dico perché mi pare interessante che il nostro discorso si innesti in una discorso più ampio, assolutamente odierno, di cui ormai facciamo parte…
By: faustocolombo on 17, novembre, 2010
at 4:16 PM
fausto, a proposito di riviste e libri appena usciti, proprio settimana scorsa ho trovato in libreria “software culture”, il nuovo saggio di lev manovich.
siccome segue idealmente “il linguaggio dei new media”, libro sui cui molti degli studenti dei tuoi corsi, compresa la versione studentesca di me stesso, si sono formati, magari possiamo approfittare di questo spazio per dare conto delle rispettive letture e discuterne. io, ovviamente, ancora non sono riuscito a leggerlo – intanto lasciò giù una breve sintesi degli argomenti di cui si occupa il libro per invogliare la lettura e la discussione:
“Completato esattamente dieci anni dopo Il linguaggio dei nuovi media, questo nuovo lavoro, tanto atteso sia in Italia sia negli Stati Uniti, offre una visione dei media digitali tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio e illustra le recenti ricerche e analisi di Manovich sul ruolo del software nelle società contemporanee, offrendo, con uno sguardo innovativo e visionario, un sostanziale contributo al campo di studio dei “Software Studies”.
Software Culture tratta ciò che Manovich definisce “software culturale” – programmi come Word, PowerPoint, Photoshop, Illustrator, After Effects, Final Cut, Firefox, Blogger, WordPress, Google Earth, etc. – che, in breve, è tutto ciò che permette la creazione, pubblicazione, condivisione e remix di immagini, progetti tridimensionali, testi, mappe, siti web, animazioni grafiche, globi virtual e che include web browser come Firefox e Safari, programmi di email e di chat, newsreader e altri tipi di programmi che si concentrano principalmente sull’accesso ai contenuti.
Ma qual è l’origine del software culturale? In che modo le sue metafore e le sue tecnologie sono comparse sulla scena? E soprattutto, perché i critici culturali e gli studiosi dei nuovi media dovrebbero interessarsi alla cultura del software?
Perché il software oggi sostituisce molte funzioni della fisica, della meccanica e delle tecnologie elettroniche nella creazione, ricezione e distribuzione dei contenuti culturali: quando si gioca con un videogame, si esplora un’installazione interattiva in un museo, si progetta un edificio, si creano gli effetti speciali per un film, si realizza un sito web, si utilizza un cellulare per leggere una recensione cinematografica o per guardare un film e ancora per migliaia di altre “attività culturali”, si fa sempre la stessa cosa: si usa un software. Il software è oggi la nostra interfaccia con il mondo, con gli altri, con la nostra memoria e la nostra immaginazione; un linguaggio universale attraverso cui il mondo comunica e un motore universale grazie al quale il mondo si muove. La scuola e l’ospedale, la base militare e il laboratorio scientifico, l’aeroporto e il museo: tutti i sistemi sociali, economici e culturali di una società moderna si appoggiano sul software, oggi al centro dell’economia mondiale, della cultura, della vita sociale, e, in modo crescente, anche della politica. Il che significa che tutte le discipline che si occupano della società contemporanea e della cultura – l’architettura, il design, la critica d’arte, la sociologia, le scienze politiche, le discipline umanistiche, quelle scientifiche e tecnologiche – non possono ignorare il suo ruolo e i suoi effetti. “
By: giuseppe zucco on 18, novembre, 2010
at 10:45 PM